Non si configura “automaticamente” il conflitto di interessi nel caso di aggiudicazione a società che abbia affidato una consulenza a un dipendente dell’ente. E’ la conclusione a cui giunge il Consiglio di Stato (sentenza in fondo alla pagina) che, con riferimento alla revoca dell’affidamento provvisorio, per la violazione del codice etico richiamato nei patti di integrità, arriva ad affermare che “poiché il dipendente non aveva alcuna veste nella vicenda di evidenza pubblica, e perciò non rientrava, rispetto all’appalto in rilievo, tra i “dipendenti dell’ente che lo rappresentano ovvero trattano o prendono decisioni per conto del Comune, l’offerta di collaborazione rivoltagli non poteva integrare una causa di esclusione, non avendo alcun nesso con la gara (tra l’altro, una gara al massimo ribasso), e non attenendo alla “corretta e leale concorrenza” in seno a questa, né ad altre procedure d’appalto comunali. Come ha dedotto l’appellante, la posizione ricoperta dal funzionario presso il Comune era totalmente estranea all’appalto, non avendo egli mai ricoperto un incarico che lo concernesse, e pertanto non c’era stata, né sarebbe stata possibile, alcuna forma di condizionamento della gara.
Per quanto concerne i patti di integrità e i protocolli di legalità, i giudici affermano che questi documenti debbono configurare obblighi sanzioni che rispettino il principio comunitario di proporzionalità, altrimenti si riconoscerebbe la possibilità di attribuire ad essi “una sorta di precetto in bianco”. E che “l’opposta interpretazione [rispetto alla cogenza del codice etico] non sarebbe compatibile con la configurazione del relativo precetto quale norma “anticorruzione”, e sarebbe pertanto ardua da conciliare con il principio di proporzionalità.
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