(Santo Fabiano*) So bene che questa autorevole rivista si rivolge a professionisti di elevati conoscenza e livello professionale, tuttavia, proprio perché potrò essere affrancato da una illustrazione “tecnicista”, propongo la lettura del DUP secondo una “prospettiva logica”. A mio avviso (lo sa bene chi ha avuto la sventura di incontrarmi in aula) buona parte dei mali del nostro continuo “riformare ciò che abbiamo appena riformato” consiste proprio nella pretesa di fornire risposte “tecniche” ad aspetti che hanno, invece, una connotazione “logica” o “metodologica”.
Proprio nei giorni scorsi ho partecipato a una conversazione tra un amministratore, convinto assertore che il bilancio è un atto politico (che non necessita di pareri tecnici) e un revisore che sosteneva, al contrario, che il bilancio è un atto tecnico.
Com’era prevedibile, la tanto evocata “distinzione dei ruoli”, ha portato alla separazione e alla contrapposizione, sia nei metodi, sia nei fini: per il politici conta il risultato (buono o cattivo che sia) per il tecnico conta il rispetto dei vincoli (peraltro fumosi e cervellotici): e la paralisi è servita!
Le ragioni di una situazione di stallo che porta diversi enti all’immobilismo, risiedono lontano: da una parte una regia del Paese fondata sul “rigore dei vincoli di bilancio” e sulla “elasticità sui vincoli dell’etica”; dall’altra una classe politica che non ha ancora compreso in che cosa consista l’approccio “programmatorio” (non me ne vogliano i miei colleghi consulenti e professori), a causa di documenti di programmazione e pianificazione che rasentano la perfezione, ma concepiti per appagare le mire di studiosi e gli appetiti di accademia che non riescono a diventare veri e propri “strumenti” per l’amministrazione e la gestione di un ente, nel quotidiano.
Ormai sono trascorsi lunghi anni dalla introduzione della programmazione e sappiamo bene quante difficoltà si incontrano. Ma si ritiene, a torto che le criticità nell’applicazione risiedano tutte nella inadeguatezza della classe politica. Non è proprio così. Uno sguardo attento si accorgerebbe della costante emergenza del contesto e della costante instabilità delle regole e persino dei vincoli, oltre che che della costante indeterminatezza dei principi normativi di riferimento. A ciò si aggiunga l’incremento di competenze e responsabilità e la riduzione di risorse, con l’insorgere di una “giurisprudenza creativa” che, salva i casi di corruzione palese, per orientarsi verso la condanna per piccole inadempienze o per l’uso “formalmente errato” di quelle poche risorse disponibili per la gestione del personale (che è composto da “persone”, non da “risorse umane”) o per l’assunzione “sospettosa” di esperti a cui affidare i vertici di amministrazioni a brandelli.
E’ un quadro esagerato? Non credo! Lo sa bene chi opera nelle pubbliche amministrazioni, nelle quali, a fronte dei nobili propositi di “visioni strategiche” e programmazioni pluriennali, trascorre, invece, le giornate abbandonando passioni professionali, per dedicarsi al labirinto delle complessità e dei conflitti, consapevole che la pubblica amministrazione è ormai un “contesto ad alto rischio” dove ogni decisione, anche la più palesemente utile e necessaria, può comportare complicazioni giudiziarie e condanne esemplari. E dove (è questo il risultato del rigore tecnicistico) passa indenne il dipendente che evita incarichi gravosi, non si assume alcuna responsabilità e magari, per ingannare il tempo, intraprende azioni giudiziarie contro la propria amministrazione o fa il wistleblower.
Vorrei invitare gli amici che insistono nel proporre modelli aziendalistici del settore privato a provare a immaginare se possa mai riuscire a sopravvivere un sistema produttivo all’interno di un contesto appesantito da vincoli e responsabilità tali da perdere di vista persino la missione da conseguire, come accade, ormai, in tutte le pubbliche amministrazioni, pervase, ormai, da un consolidato senso di smarrimento e demotivazione (o persino il conflitto) che non aiutano a trovare lo sbocco e ad alimentare la funzionalità.
Mi auguro che i tempi siano maturi per una nuova consapevolezza dell’agire amministrativo. E il “nuovo DUP” rappresenta una formidabile occasione per ripensare, nel profondo le modalità di governo delle pubbliche amministrazioni attraverso lo strumento della programmazione. Ma a patto che non si ripetano gli errori del passato. Cioè, che non si torni a riproporre una visione accademico-tecnicista (che appaga solo chi la produce) intrisa di formule, schemi e algortimi e indicatori dello scarto quadratico medio, ma che non producono alcuna utilità in termini di funzionalità e consapevolezza organizzativa. Anzi, hanno l’effetto di allontanare i veri protagonisti dalla programmazione, per dedicarsi alle “piccole visioni” dell’ordinario.
La disposizione normativa
Il “documento unico di programmazione” è previsto nel corpo dell’art. 150 del TUEL, all’interno della parte II dedicata (purtroppo) all’ordinamento finanziario. Si tratta della reiterazione di un “peccato di origine” che deriva dalla precedente impostazione del DL 77/95 che, al fine di riordinare il sistema contabile, giustamente, prevedeva l’introduzione di strumenti di programmazione, facendo, insorgere, tuttavia, una cultura (ormai consolidata al punto da ritenere scandalosa questa mia affermazione) che vede tutta l’organizzazione dell’ente al servizio dell’equilibrio di bilancio, piuttosto che della funzionalità dell’azione amministrativa, con le conseguenze disastrose che tutti conosciamo.
E ciò, già nel 1995 è stato aggravato dalla subordinazione temporale della definizione degli obiettivi nel PEG all’approvazione del bilancio di previsione. Che nel frattempo, come è noto, sempre per ragioni contabili, si è spostato sempre più oltre la metà dell’anno, vanificando così ogni buon proposito di programmazione, in senso reale. E nessuno, ormai, si sorprende che il PEG sia soltanto un documento contabile.
Tutto ciò appare come paradosso se si considera che, proprio per effetto della riforma del ’93 abbiamo visto proclamare la distinzione tra politica e gestione, affidando alla prima il compito di “indirizzare”, cioè di esprimere, attraverso programmi, progetti e obiettivi, l’orientamento dell’ente. E’ successo invece che anche la programmazione, strettamente legata alle “logiche” di bilancio è diventata sempre più “tecnica”, invece che politica.
E altri tecnici, senza arte né parte, aggiungevano altra illogicità al sistema pretendendo “obiettivi sfidanti” in contesti in cui persino la sopravvivenza e l’ordinario rappresentano una reale sfida. E ancora, per dare un tono aulico a quelli che dovrebbero essere strumenti di lavoro, si è aggiunto anche chi ha pensato bene di arricchire i documenti di programmazione (già vincolati e tardivi) con elementi di analisi strategica che quando non rivelano le banalità già note a chi amministra, fanno ricorso a scenari internazionali di poca utilità nel contesto in cui si opera.
Il risultato di tutto questo è stato un mancato avvicinamento della politica allo strumento della programmazione e soprattutto il netto distacco tra strumenti programmatori e attività gestionale: non conosco amministrazioni che prendano sul serio la propria relazione programmatica o che ritengano vincolante la pianificazione, che infatti, quando non è banale, è generica.
E c’è di più, su questo obbrobrio si fonda il sistema di valutazione che esprime giudizi su performance che non esprimono il “core” dell’amministrazione e “valutano” soltanto ciò che è apparente e banale, persino in contrapposizione con la visione delle priorità dell’amministrazione.
Le linee strategiche
L’articolo 151, che reca nella rubrica “principi generali”, afferma: “1. Gli enti locali ispirano la propria gestione al principio della programmazione. A tal fine presentano il Documento unico di programmazione entro il 31 luglio di ogni anno. […] Le previsioni del bilancio sono elaborate sulla base delle linee strategiche contenute nel documento unico di programmazione”.
Dal tenore della disposizione si intende che il DUP precede (non solo temporalmente) il bilancio di previsione. Possiamo affermare (come accadeva per la relazione previsionale e programmatica) che il DUP contiene la visione complessiva dell’amministrazione, espressa attraverso le “politiche” e i progetti, mentre il bilancio di previsione è “soltanto” la rappresentazione dei flussi finanziari in entrata e in uscita.
E’ evidente che se si possiede (o si è posseduti da) una visione tecnica (o peggio, ragionieristica) si considera il bilancio di previsione come documento principale, sottraendo ogni valore alla programmazione reale, quella delle politiche, delle scelte di intervento nel territorio e quella del recupero delle relazione tra cittadini e istituzioni, anche in termini di bisogni e risposte.
Anche l’espressione “linee strategiche”, poi, ha una derivazione tecnicista e a sua volta militare. Sarebbe stato più pertinente, proprio in ragione della specificità del contesto, che fossero denominate “linee politiche”. E sarebbe stata un’occasione per recuperare il ruolo della politica all’interno dell’ente locale, che è inevitabilmente un “luogo politico”.
E’ inutile parlare di distinzione tra politica e gestione se ogni gesto e ogni atto, persino quelli di programmazione, diventano appannaggio di tecnici, a loro volta soggetti alle schizofrenie di norme, interpretazioni, direttive, orientamenti, circolari ecc.
Se abbiamo l’intenzione di rispettare il dettato normativo, per “linee strategiche” si deve intendere il complesso delle “politiche” (così le definisce l’art. 8 del decreto legislativo 150/2009), cioè degli ambiti di intervento dell’ente, ancor prima della allocazione delle risorse.
Non si vuole certo negare che, in assenza di risorse finanziarie sia impossibile attuare le politiche dell’ente. Ma è estremamente riduttivo ritenere che soltanto ciò che si traduce in spesa o entrata sia degno di attenzione e programmazione.
La scelta “bilanciocentrica”, sempre più presente e pressante, ha portato alla banalizzazione della “funzione direzionale”, intesa come guida e orientamento delle scelte e delle azioni dell’ente in direzione di modalità di lavoro e prospettive di risultato che siano funzionali, a favore del “risultato contabile”. L’effetto che si è ottenuto è proprio questo: la contabilità, da strumento è diventata risultato e l’attenzione ai “valori” è stata sostituita dall’attenzione ai costi.
In questo scenario ha avuto facile gioco la peggiore politica, finalizzata, non al conseguimento di fini sociali, ma alla distribuzione della spesa.
La previsione dell’art. 170
In quell’articolo che reca nella rubrica, proprio, “documento unico di programmazione”, afferma (comma 5) che si tratta di “un atto presupposto indispensabile per l’approvazione del bilancio di previsione”. Ma, in particolare, nel primo comma si fa riferimento a due scadenze: la prima riguarda la “presentazione da parte della Giunta al Consiglio” (31 luglio, di norma, 31 ottobre per l’anno corrente); la seconda riguarda la “nota di aggiornamento”, da produrre entro il 15 novembre.
Ciò vuol dire che il bilancio finanziario ha bisogno di fare costantemente riferimento a un documento di “programmazione generale”, a tal punto che, anche in fase di aggiornamento (o assestamento) deve assicurare, oltre alla coerenza dei numeri contabili, la piena rispondenza alle prospettive di programmazione generale.
Sarebbe opportuno (oltre che logico), quindi, che i due documenti (DUP e bilancio) viaggiassero insieme, anche dal punto di vista operativo. Ciò vuol dire che, così come il bilancio finanziario è uno strumento costantemente consultato e aggiornato, altrettanto dovrebbe accadere per il documento di programmazione che non può essere inteso come un trattato sui “massimi sistemi” del territorio, la cui realizzazione sia da affidare a un grande esperto, per poi approvare e dimenticare fino alla prossima scadenza. Ma, invece, come uno strumento reale di programmazione delle azioni, anche immediate, da intraprendere e di verifica del loro effettivo conseguimento.
Più avanti, lo stesso articolo afferma (comma 2) che “ Il documento unico di programmazione ha carattere generale e costituisce la guida strategica ed operativa dell’ente”. E ancora (comma 3) che “il Documento unico di programmazione si compone di due sezioni: la Sezione strategica e la Sezione operativa. La prima ha un orizzonte temporale di riferimento pari a quello del mandato amministrativo, la seconda pari a quello del bilancio di previsione.”
Fa bene l’articolo a fare riferimento alla “guida strategica e operativa” e in tal senso è necessario, in considerazione della prossima scadenza, orientare ogni sforzo per restituire significato alla funzione di programmazione e indirizzo su cui si fonda la “funzione politica dell’ente”.
La struttura del documento
Il DUP, quindi, è l’ambito più elevato della funzione politica all’interno dell’amministrazione comunale:
- è l’occasione per la definizione del contesto, espresso in termini di bisogni, vincoli e opportunità
- è l’ambito per la declinazione della politiche, cioè delle scelte di priorità che definiscano i valori di riferimento e la visione di territorio che si vuole perseguire
- è il documento “progettuale” che traduce le politiche in risultati attesi, intesi come risposte a bisogni o prospettive di sviluppo
- è il documento operativo che individua gli “obiettivi” da perseguire all’interno di ogni progetto e ne attribuisce l’attuazione ai vertici dell’amministrazione, descrivendone modalità e tempi di attuazione
- è lo strumento di lavoro che, almeno con una cadenza mensile, dovrà essere preso come riferimento, sia per verificare lo stato di conseguimento, sia per aggiornarne il contenuto
- è l’ambito delle performance che dovranno essere prese in considerazione in occasione della valutazione
A conferma di ciò basti pensare che l’art. 169, al comma 3 bis, a proposito del PEG (che ha una funzione autorizzatoria di tipo amministrativo contabile) dispone che “il PEG è deliberato in coerenza con il bilancio di previsione e con il documento unico di programmazione” e aggiunge, “al PEG è allegato il prospetto concernente la ripartizione delle tipologie in categorie e dei programmi in microaggregati […]”.
Questa disposizione aiuta a definire il ciclo reale della programmazione che quindi si articola così
- il DUP definisce le politiche i programmi e gli obiettivi da conseguire, intesi come performance organizzativa e individuale
- il bilancio di programmazione, con riferimento al DUP, individua e destina le risorse per la realizzazione dei programmi
- il PEG assegna le risorse ai responsabili dei programmi, con riferimento al DUP e al bilancio di previsione
Che cosa cambia o deve cambiare?
Ma perché ciò possa realizzarsi, innanzitutto è necessario che all’interno dell’ente vi sia la piena consapevolezza in ordine alla utilità di questo metodo di programmazione che, prima ancora di essere considerato come “strumento tecnico”, deve essere inteso come “sistema di organizzazione”. Ciò vuol dire che alcuni protagonisti dell’ente dovranno riesaminare il proprio ruolo:
- la politica dovrà trovare interesse alla definizione delle “politiche” e sarà facilitata nella rendicontazione e nella redazione delle relazioni periodiche o di fine mandato
- i vertici amministrativi dovranno promuovere il coinvolgimento dei vertici politici nella definizione di documenti di programmazione e indirizzo che assicurino tracciabilità e trasparenza all’azione amministrativa
- gli organismi di valutazione dovranno impegnarsi a valorizzare i documenti di programmazione e la loro declinazione, anche promuovendone l’aggiornamento costante, piuttosto che le autocertificazioni e la misurazione del banale.
(*) l’articolo sarà pubblicato sulla rivista Management locale (ottobre 2015)
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