Un privato viene condannato per il delitto di falso ideologico in una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà in occasione di una selezione pubblica in una gara d’appalto.
In sede di ricorso avverso tale decisione lo stesso invoca la buona fede, essendo stato il tratto in inganno dall’assenza di annotazioni pregiudizievoli contenute nel certificato del casellario rilasciato ad uso del privato, oltre alla richiesta di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., dimostrando che la dichiarazione non gli avrebbe reso alcuno specifico vantaggio.
La Corte suprema (con la sentenza 48898/2018, riportata in fondo alla pagina) rigetta il ricorso affermando che secondo l’interpretazione consolidata resa dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di falsità ideologica in atto pubblico, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, ossia la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione. Poiché nel caso in esame il contenuto della dichiarazione richiesta ai partecipanti alla gara di appalto era analiticamente scandito, quanto alla descrizione dei reati per i quali l’interessato non doveva essere stato condannato, neppure con sentenza pronunciata si sensi dell’art. 444 cod. pen. e recante il beneficio della non menzione, tanto obbligava il ricorrente a dichiarare il vero: ciò a maggior ragione perché questi era dotato di sufficienti strumenti culturali per comprenderne il tenore e, in ogni caso, prima di rendere l’attestazione di cui alla contestazione, avrebbe dovuto verificare se le condanne riportate – delle quali egli era del tutto consapevole avendo presentato istanza di riabilitazione – fossero o meno tra quelle elencate nella clausola del bando.(sf)
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